psicologia & benessere

I tuoi valori sono davvero forti quanto credi?

Siamo tutti più o meno inclini a obbedire all’autorità, cioè a coloro ai quali attribuiamo il diritto o il potere di dirci cosa fare. Ma, a volte, ciò può spingerci ad agire in modo contrario al nostro stesso senso morale.

obbedienza all'autorità

Il capoufficio, un tipo severo e poco incline al dialogo, entra senza bussare e con un’espressione scura in viso. Con sollievo capisci che non è lì per te: senza indugi si dirige verso la scrivania del collega con il quale condividi la stanza, incolpandolo di un’inesattezza nella stesura di una relazione per un importante cliente. Quella svista è causa di un grave danno per l’azienda, ci saranno conseguenze…

Tu sai che lui non c’entra e, anzi, conosci il vero responsabile dell’errore: è un altro collega, che conosci da vent’anni. Uno dei tuoi migliori amici.

Che cosa fai?

Tutti pensiamo di saper distinguere fra il bene e il male e che le nostre azioni siano orientate da tale consapevolezza. Senz’altro ti immagini che parteggeresti per la vittima di un’ingiustizia o che ti ribelleresti a chi cercasse di costringerti a commettere atti disonesti. Ma, nella realtà, ti comporteresti così se si presentasse l’occasione?

Sono sempre i valori a guidarci? Oppure, più spesso di quanto vorremmo, altri motivi ci condizionano?

Bene o male siamo tutti inclini a obbedire all’autorità, cioè a coloro ai quali attribuiamo il diritto o il potere di dirci cosa fare. Le figure autorevoli che incontriamo per prime sono la mamma e il papà che, a parole e con l’esempio, ci trasmettono norme culturali. Fin da piccoli, così, impariamo a sottostare al volere altrui.

L’obbedienza è parte della nostra natura, per la specie Homo è istintivo intrattenere rapporti basati sull’autorità. Con vantaggi innegabili: conflitti sociali e violenza sono mitigati dal senso di colpa e dalla paura della punizione conseguenti alla trasgressione di regole.

Non è un caso se in ogni epoca si ritrovano civiltà organizzate in modo gerarchico. A parte, forse, la misteriosa ed estinta civiltà della Valle dell’Indo, fiorita in Pakistan e in India occidentale fra il 2600 a.C. e il 1900 a.C. Dagli scavi archeologici, in questi siti non sono emerse rovine né di palazzi reali, né di templi. Ma è solo un’eccezione e nemmeno certa…

Rispettare l’autorità migliora l’efficienza del gruppo e favorisce l’armonia fra i componenti. Ma cosa accade quando l’obbedienza è cieca e un’autorità malevola la sfrutta a proprio vantaggio?

La traballante moralità delle persone: l’esperimento di Milgram

Adolf Eichmann, funzionario nazista, è considerato uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

Eichmann, sfuggito al processo di Norimberga e rifugiatosi in Argentina, solo molti anni dopo fu rintracciato e catturato dal Mossad, il servizio d’intelligence dello Stato di Israele.

Durante il processo, malgrado fosse accusato di crimini gravissimi, in sua difesa Eichmann ripeté un’affermazione che fece il giro del mondo e che divenne celebre, tanto da diventare un modo di dire: “Eseguivo solo gli ordini”.

Quelle parole risuonavano ancora più sinistre, dette da un tipo come lui: calvo, di mezza età, un uomo del tutto ordinario che, con i suoi occhialini da vista, aveva l’aspetto di un qualsiasi impiegato.

adolf eichmann a processo
adolf eichmann, funzionario nazista

Assistere a quello storico processo stimolò in Stanley Milgram, psicologo statunitense di origini ebree, la curiosità tipica dei grandi scienziati e un interrogativo: è possibile compiere atti tanto malvagi solo per ottemperare agli ordini ricevuti da un’autorità?

Fu così che, nel 1961, Milgram progettò un esperimento che è ormai un classico della psicologia sociale. Allo scopo, reclutò partecipanti tramite annunci su giornali e inviti spediti per posta avvisandoli che, se avessero accettato, dietro compenso si sarebbero sottoposti a uno studio sull’apprendimento e sulla memoria. Informazione falsa, ma indispensabile per non condizionare le loro azioni.

Fra questi quaranta soggetti, d’età compresa fra i 20 e i 50 anni, si mescolarono finti volontari, collaboratori di Milgram.

I soggetti furono divisi, con un’estrazione pilotata, in due gruppi, gli insegnanti e gli allievi. Nel primo furono inseriti gli ignari volontari, nel secondo i collaboratori di Milgram. Le coppie, formate da un insegnante e da un allievo, erano poi condotte in una stanza nella quale si trovava un pannello generatore di corrente elettrica dotato di 30 interruttori, ciascuno in grado di erogare voltaggi di differente potenza, da 15 a 450 Voltz. Sotto, una didascalia descriveva la pericolosità della scossa elettrica corrispondente.

pannello elettrico, esperimento di milgram
il pannello elettrico dell’esperimento di milgram

L’insegnante si accomodava davanti al pannello, l’allievo su una sedia collegata al generatore. Per fare una prova, a ciascun insegnante era chiesto di erogare una scossa elettrica di medio voltaggio, 45 Voltz, così da accorgersi degli effetti sull’allievo. Poi iniziava l’esperimento vero e proprio.

L’insegnante leggeva serie di parole che l’allievo aveva il compito di memorizzare e, in seguito, di ripetere in un certo ordine. Dopo ciascuna prova, l’insegnante stabiliva se le risposta dell’allievo fosse corretta. In caso contrario doveva infliggergli scosse elettriche via via maggiori.

Naturalmente gli allievi, “complici” di Milgram, non ricevevano alcuna vera scossa: erano addestrati a sbagliare le risposte e a fingere di subire folgorazioni, fino a simulare la perdita dei sensi.

Le prove si svolgevano nelle quattro condizioni riassunte di seguito, ciascuna delle quali poneva l’insegnante in una differente condizione di stress. L’ultima era la più impegnativa, prevedendo un contatto fisico con la “vittima”.

  1. L’insegnante erogava le scosse senza vedere né udire l’allievo.
  2. L’insegnante erogava le scosse senza vedere ma udendo l’allievo.
  3. L’insegnante erogava le scosse a un solo metro di distanza dall’allievo.
  4. L’insegnante, per erogare le scosse, doveva spingere il braccio dell’allievo su di una piastra metallica.

Alle eventuali esitazioni dell’insegnante lo sperimentatore rispondeva cercando di alleviarne il senso di colpa: “Mi assumerò io la responsabilità”. Oppure, con voce perentoria, ricordandogli gli impegni presi: “Non hai scelta, devi continuare!”.

La prova terminava solo qualora l’insegnante si rifiutasse di procedere oltre. Il suo grado d’obbedienza era dedotto dal voltaggio massimo erogato.

I risultati dello studio di Milgram

Prima di iniziare l’esperimento, Milgram e collaboratori chiesero un pronostico sia agli studenti della facoltà di psicologia di Yale, sia a psichiatri professionisti. L’accordo fu all’incirca unanime: i soggetti disposti a dare scosse pericolose o letali sarebbero stati pochissimi, circa l’1%, cioè i più sadici o inconsapevoli delle proprie azioni.

I risultati, però, si discostarono alquanto da tali previsioni. Nonostante evidenti segni di contrarietà e ansia, un gran numero di insegnanti non si sottrasse al compito, portandolo a termine.

In particolare, a dare la scossa massima di 450 Voltz furono, nella prima situazione, il 65% dei soggetti, nella seconda il 62,5% dei soggetti, nella terza il 40% dei soggetti e nella quarta il 30% dei soggetti. In altre parole, anche quando era necessario porre fisicamente l’allievo nella condizione di ricevere la scossa, un insegnante su tre arrivò a erogare il voltaggio massimo, quello mortale. Nel video che segue puoi vedere alcuni istanti dell’esperimento.

Obbedienza all’autorità: cosa ci insegna l’esperimento di Milgram

I risultati dell’esperimento di Milgram non sono facili da accettare, perché contraddicono tre convinzioni ben radicate nel senso comune:

  1. Che la capacità di compiere atti malvagi appartenga solo ai malvagi.
  2. Che le persone “normali”, “per bene”, abbiano una forte moralità e che agiscano sempre onorandola.
  3. Che le ragioni degli atti malvagi siano da imputare al singolo e non anche alle circostanze nelle quali egli si trova.

Nell’esperimento di Milgram la pressione sociale dovuta alla situazione, l’obbligo a rispettare gli accordi presi e l’autorità del ricercatore erano sufficienti a disporre alla violenza uomini comuni.

Pur consapevoli di star compiendo il male, essi erano posti nello stato d’animo di addossare i propri atti alla volontà dello sperimentatore e alle esigenze del contesto. Diventavano, in altri termini, strumenti.

Eseguivo solo gli ordini”. L’autogiustificazione di Adolf Eichmann.

L’esperimento di Milgram dimostra che ci si possa sentire non responsabili delle proprie azioni? No. Milgram stesso spiega con queste parole i risultati del suo studio: “spesso le azioni degli individui non sono determinate tanto dal tipo di persona che sono, quanto dalla situazione in cui si trovano… Siamo, in un certo senso, pupazzi controllati dalla società. Però siamo pupazzi con una percezione e una consapevolezza. E, forse, proprio questa consapevolezza può essere il primo passo verso la nostra liberazione”.

© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.

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