Nel corso dell’evoluzione, la mente umana si è trasformata in una "macchina" sempre occupata a risolvere problemi. Per questa ragione passiamo tanto tempo a rivivere vecchi fallimenti e a temere ciò che, di negativo, potrebbe attenderci in futuro.
Di tutti i pensieri che ti si avvicendano nella mente, solo alcuni giungono alla consapevolezza o sono il prodotto di un’azione deliberata. Della maggior parte, invece, non sei responsabile né ti accorgi.
Immagini, ricordi, speranze, ansie sul futuro. Ogni giorno, dal momento in cui ti risvegli a quello in cui ti corichi sei sottoposto a un continuo “bombardamento” di stimoli cognitivi. E, in realtà, anche nel sonno.
Eppure sei sicuro che sapresti spiegare, a parole, cosa significa pensare? Un’infinità di filosofi e intellettuali, per secoli, ne hanno discusso senza trovare un accordo. E non sta andando tanto meglio ai moderni neuroscienziati.
Le tradizioni spirituali orientali e gli antichi pensatori greci ci insegnano che la realtà, in sé, non esiste, ma è frutto di un atto mentale. Pensare implica una serie di processi grazie ai quali costruiamo la nostra personale rappresentazione di ciò che ci circonda: è dal pensiero che prendono forma giudizi e aspettative. Dalla mente nasce il mondo.
Il pensiero si esprime, in prevalenza, attraverso il linguaggio. Spesso è una sorta di dialogo silenzioso con noi stessi: se rifletti su ciò che, per te, sono l’amore o la giustizia, è probabile che utilizzerai parole.
Ma il pensiero non si limita a quel silenzioso mormorio. Se rievochi l’aula in cui facevi lezione alle superiori, il viso del tuo migliore amico o un bel paesaggio, per esempio, pensi per immagini.
Sono state individuate diverse aree del cervello deputate all’elaborazione del pensiero, fra cui la corteccia prefrontale che è implicata nell’attenzione, nell’autoregolazione, nella pianificazione e nella previsione dell’esito delle azioni.
Le neuroscienze, inoltre, hanno dimostrato che il pensiero ha base organica. Nel cervello vi sono circa 100 miliardi di neuroni, una quantità sbalorditiva che equivale a centomila milioni; ognuno dei quali forma fino a diecimila connessioni sinaptiche con i neuroni vicini, organizzandosi in “reti”.
All’interno delle reti neurali le informazioni viaggiano a una velocità massima di 100 metri al secondo, circa 400 chilometri all’ora. Se hai l’impressione di non riuscire a stare al passo con i tuoi pensieri, questa è una delle ragioni.
Malgrado le tante scoperte, però, siamo ancora distanti dalla comprensione di come possiamo “udire” le nostre parole senza parlare e “vedere” qualcosa che pure non è davanti ai nostri occhi. In che modo il pensiero emerge dai semplici processi chimici ed elettrici dei quali i neuroni si servono per comunicare fra loro? In sostanza, l’enigma resta insoluto. Che cos’è il pensiero?
Perché, tanto spesso, del passato ricordiamo sventure ed errori e del futuro cogliamo solo rischi e avversità? La risposta viene da lontano, dall’epoca in cui la storia della specie umana era appena iniziata e la maggior parte dei fenomeni naturali doveva sembrare, ai nostri primi antenati intelligenti, una misteriosa magia.
Durante una battuta di caccia, nel bel mezzo di una corsa a perdifiato un uomo si fermava di colpo, si portava le mani al petto e cadeva a terra, come addormentato. I tentativi dei compagni, di svegliarlo, tutti vani. Che cosa era accaduto? Possiamo solo immaginare le loro interpretazioni.
Predatori implacabili, malattie senza nome e continue carestie. In un mondo in cui la morte poteva nascondersi dietro a ogni albero, possedere la capacità di ragionare e di individuare rapporti di causa-effetto rappresentava la possibilità di anticipare gli eventi, un notevole vantaggio per la sopravvivenza. Non stupisce, allora, che la mente sia diventata una “macchina” sempre occupata a risolvere problemi e che, ancora oggi, ci induca a passare tanto tempo a rivivere vecchi fallimenti e a temere ciò che, di negativo, potrebbe attenderci in futuro. Il suo modo di fare non è mai cambiato: rimuginare e ruminare sono due attività nelle quali, con facilità, resta intrappolata.
Il rimuginio è finalizzato a prevenire il futuro. Si rimugina spinti dalla convinzione che ciò sia utile a non essere colti impreparati.
Oggetti del rimuginio sono, per lo più, le eventualità in cui non vorremmo incorrere. Puoi rimuginare aspettandoti di non superare il prossimo esame universitario, di ricevere un rifiuto dal ragazzo con il quale desideri uscire, di essere licenziato in tronco e finire sommerso dalle rate del mutuo ventennale che hai appena stipulato.
Rimuginare è un’attività iterativa, è il tentativo di trovare soluzioni per mezzo della ripetizione di una serie di operazioni mentali. Purtroppo, però, è come cercare di uscire da un bosco in cui ci si è smarriti continuando a percorrere, in cerchio, il medesimo sentiero.
Prendiamo l’esempio di una donna di mezza età, sposata e con un figlio ormai grande. Immaginiamo che, di recente, si sia sottoposta ad accertamenti medici e che sia in attesa dei risultati. Forse, al suo posto, anche noi sentiremmo una certa tensione.
Rimuginando, i pensieri della donna potrebbero prendere questo corso: “Se scoprissi di essere malata, dovrei sottopormi a cure, forse dolorose… Costringerei mio marito a dovermi assistere, magari a lungo e così mi sentirei in colpa… mio figlio dovrebbe assentarsi dal lavoro, inutilmente, se quello che ho è grave, poi… E ha la sua famiglia a cui pensare! E come farò con il mio, di lavoro?… Non posso permettermi una malattia proprio ora… Gli accertamenti andranno male, me lo sento …”.
Se questo monologo interiore ti ha trasmesso una certa ansia, è naturale. Il rimuginio è un modo di prepararsi a eventualità minacciose. Ma è un tentativo destinato a fallire. Così, altro rimuginio si rende necessario, fino a che il problema diviene il fatto stesso di rimuginare.
Rimuginare porta a fissarsi sui potenziali esiti negativi di eventi futuri i quali, di conseguenza, finiscono per apparire più probabili o prossimi di quanto non siano. Spesso si rimugina su circostanze vaghe, ipotetiche o incontrollabili. Chi è ipocondriaco, per esempio, non riesce a smettere di pensare di poter contrarre una grave malattia. Chi soffre di ansia generalizzata ha il terrore di perdere i propri cari, il lavoro o la stabilità finanziaria. Chi ha un disturbo alimentare o il dismorfismo corporeo cade nell’ossessione che i suoi presunti difetti fisici finiscano sotto lo sguardo e il giudizio altrui. Chi ha la fobia sociale si sente inadeguato e crede che ciò sarà causa di insuccesso ed esclusione. Chi soffre di panico trascorre le giornate a prefigurarsi il prossimo attacco.
Come il rimuginio, la ruminazione è un’attività circolare e iterativa ma, invece che sul futuro, è centrata sul passato. Chi rumina richiama alla mente vecchi fallimenti allo scopo di non ripeterli. Purtroppo, tuttavia, ciò non fa che rafforzare sentimenti, già ben radicati, d’impotenza, e inadeguatezza. Riprendendo l’esempio precedente, ecco una ruminazione: “E se fossi davvero malata?… Dovrei sottopormi a cure dolorose, forse lunghe… Non credo di farcela… Come al solito, d’altronde… Come sei anni fa, prima di quella visita cardiologica. E da giovane, quando ero incinta e avevo il terrore di non riuscire a portare a termine la gravidanza… Perché non riesco mai ad affrontare queste situazioni? Se solo non fossi sempre tanto ansiosa e insicura… Non cambierò mai”.
Leggendo queste righe hai percepito il rimpianto, la demoralizzazione e l’autobiasimo della donna? Sono questi gli effetti della ruminazione.
Ruminare causa una rigida focalizzazione sul passato e sugli aspetti negativi di sé. In particolare, finisce in questa trappola chi crede di avere subito torti da altri o dalla sorte, chi è convinto di mancare di volontà e di valore, chi si sente non abbastanza intelligente, amabile, talentuoso, forte.
Chi rumina si trova nel conflitto di volere allontanare tali convinzioni da sé, perché dolorose, e allo stesso tempo di rifiutarsi di metterle in discussione, considerandole corrette rappresentazioni della realtà.
Trattandosi di un’attività mentale punteggiata di distorsioni cognitive, autopunitiva e autogiudicante, ruminare ha effetti sull’autostima, sulla motivazione e sull’umore. In effetti, mantiene e rafforza le dinamiche patogene alla base della depressione.
Nonostante tutto, al rimuginio e alla ruminazione c’è un’alternativa, ben nota in psicologia sebbene sia definita con una molteplicità di nomi. Qui la chiameremo con il termine generico di riflessione.
Per riflessione intendiamo un’attività mentale lineare più che circolare e centrata sul presente.
Torniamo un’ultima volta all’esempio della donna in attesa dei risultati degli esami medici. Ecco un esempio di riflessione: “Certo, se fossi malata dovrei curarmi… Al momento però, niente di ciò che temo è certo… Per ora non posso fare nulla più di quello che ho già fatto. Agitarmi non cambierà l’esito degli esami… quindi tanto vale restare calma. Quel che sarà, lo accetto e lo affronterò”.
In genere, chi è solito rimuginare o ruminare considera questo atteggiamento impraticabile quando non irresponsabile, incauto e superficiale perché, in apparenza, sembra passivo, disinteressato e inutile per prepararsi a ciò che potrebbe capitare.
In realtà, è l’esatto contrario. Riflettere favorisce l’apertura e la serenità nei confronti di se stessi, degli altri e del futuro, è parte di un’impostazione ben riassunta dal detto: “Se un problema può essere risolto, cerca la soluzione. Se un problema non può essere risolto, non è un problema”.
Riflettere non è una rinuncia a trovare soluzioni, anzi, aiuta ad affrontare la vita con lucidità e determinazione, un passo alla volta. Neutralizza l’influenza nociva del passato e alleggerisce il peso del futuro e della sua precarietà, perché libera dai giudizi che, goccia a goccia, avvelenano la mente.
Ma non è qualcosa che si possa improvvisare. Presuppone, infatti, la disponibilità ad accettare ciò che non può essere controllato; la capacità di apprezzare e restare centrati su ciò che i sensi comunicano della realtà, istante per istante e di utilizzare l’attenzione in modo abbastanza flessibile da riuscire a restare disimpegnati, nel ruolo di semplici osservatori, davanti al materiale inutile, trito e ritrito che la mente, di continuo, produce e propina.
© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.
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