disturbi d'ansia e ossessivi

Come superare le ossessioni e il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Superare il DOC significa acquisire la capacità di gestire le proprie paure senza mettere in atto le compulsioni. Scopri come il nostro Studio affronta questo disturbo.

superare ossessioni e compulsioni

Con la parola “ossessione”, anche nel linguaggio comune, ci si riferisce a un pensiero difficile da scacciare. Volendo essere più precisi, però, un’ossessione è un pensiero ripetitivo che può presentarsi in forma verbale ma anche di immagini o impulsi e che può comparire senza volerlo. Le ossessioni egodistoniche, appunto, sono quelle sentite come estranee al proprio modo di essere, mentre quelle egosintoniche hanno la caratteristica opposta. Che siano di un tipo o dell’altro, comunque, di norma hanno un contenuto negativo e, per questo, quasi sempre chi le ha cerca in ogni modo di sbarazzarsene compiendo una varietà di azioni pratiche o mentali, le compulsioni.

I problemi ossessivo-compulsivi possono essere di varia natura. Molti di noi avranno qualche amico, un parente o un conoscente che teme i ladri ed è abituato a controllare e ricontrollare di avere chiuso la porta dopo essere uscito da casa, oppure prima di coricarsi la sera. Altre ossessioni sono, invece, caratterizzate da pensieri strani che provocano vergogna e senso di colpa. Sono quelle che hanno come tema gli atti di violenza nei confronti di bambini o persone care, gli impulsi autodistruttivi, le immagini di natura sessuale. Chi ne fa esperienza, proprio perché le ritiene inaccettabili, di solito ne resta scosso e teme che tornino.

Il trattamento delle ossessioni e del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

Le ossessioni più frequenti riguardano la contaminazione e le malattie, per esempio il timore di contrarre un’infezione stringendo la mano a qualcuno, toccando animali o oggetti; l’orientamento sessuale, le azioni sessuali e il peccato, per esempio aver paura di comportarsi in modo osceno o peccaminoso a seguito di impulsi improvvisi; il danno a sé o ad altri arrecato in modo indiretto, per esempio il dubbio di essere usciti da casa senza aver chiuso il gas; il danno a sé o ad altri arrecato in modo diretto, per esempio il timore di aggredire il figlio o il coniuge per via di un raptus incontrollabile.

Le compulsioni sono azioni mentali o comportamenti ripetitivi il cui obiettivo è evitare il disagio causato dalle ossessioni e impedire il verificarsi della situazione temuta. Nel nostro esempio iniziale, controllare più volte di aver chiuso la porta di casa ha lo scopo di ridurre la probabilità del verificarsi di un’intrusione da parte di malintenzionati. Le compulsioni possono essere overt, qualora siano comportamenti manifesti, oppure covert se sono azioni non visibili, come per esempio rassicurarsi, recitare preghiere, contare, ripetersi frasi o parole in un certo ordine.

Quale che sia il caso, tutti coloro che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo condividono un forte bisogno di controllo, una scarsa capacità di tollerare l’incertezza e un senso di responsabilità inflessibile. Nel momento in cui insorgono pensieri ossessivi, per natura poco controllabili e involontari, la risposta prevedibile di chi ha questa configurazione di personalità è mettere in atto comportamenti per recuperare controllo e ridurre l’incertezza. Queste azioni, però, hanno il paradossale effetto di rinforzare le ossessioni e renderne più probabile la futura ricomparsa.

Il trattamento del DOC, di conseguenza, ha come obiettivo l’apprendimento di un modo più funzionale di gestire i propri pensieri e l’acquisizione di piani di risposta che non includano le compulsioni.

Le tecniche metacognitive. Come sviluppare un modo nuovo di gestire i propri pensieri

Chi soffre del Disturbo Ossessivo Compulsivo ha pensieri, immagini o impulsi i quali, alla loro comparsa, provocano un immediato disagio. Per esempio, la conseguenza più probabile del pensiero di aver contratto germi toccando la maniglia di un bagno pubblico è il disgusto e l’ansia per la propria incolumità fisica, la conseguenza del pensare di essere pedofili per aver avuto l’immagine intrusiva di un contatto con un bambino è invece, quasi sempre, il senso di colpa e l’autobiasimo.

Il disagio che spinge a compiere la compulsione è, quindi, provocato da uno “stimolo attivante”. Prendiamo l’esempio di una neomamma che ha ossessioni sulla possibilità che il figlio si ammali entrando in contatto con virus e batteri. Questa preoccupazione potrebbe innescarsi sotto forma di pensiero verbale: “E se mio figlio si ammalasse e io non me ne accorgessi?”; “Come faccio a sapere che in casa non c’è pericolo?”. Oppure potrebbe apparirle l’immagine dei giocattoli ricoperti di germi e delle mani del bimbo che vi entrano in contatto.

Questi pensieri, in modo istantaneo, innescano le cosiddette convinzioni metacognitive. Le metacognizioni sono convinzioni automatiche sui pensieri. Sono, in altri termini, pensieri sui pensieri. Ciascuno di noi le possiede, anche senza saperlo, ma alcune di esse sono disfunzionali, come quelle tipiche nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, elencate di seguito.

Chi soffre di DOC può ritrovarsi in molte delle affermazioni precedenti, che sono da considerarsi disfunzionali non solo perché irrazionali, ma anche perché concorrono a rendere realistico il pensiero ossessivo. Riprendiamo l’esempio della mamma preoccupata per la salute del proprio bambino. Se in risposta all’immagine del figlio che contrae l’infezione si innesca la metacognizione secondo cui “pensando a qualcosa, quel qualcosa accadrà” è probabile che la donna, di rimando, si ritrovi a pensare: “Allora devo a ogni costo trovare il modo per impedirlo”. Come è naturale che sia, questo pensiero rafforzerà l’ansia per l’incolumità del bambino e ciò, a sua volta, aumenterà la probabilità che compaiano altri dubbi sulla sua sicurezza. L’escalation di pensieri e sentimenti di pericolo finirà per spingere la donna a mettere in atto qualche comportamento eccessivo, come lavare più volte e sterilizzare tutto quanto possa entrare in contatto con il figlio, o vietargli di toccare particolari oggetti.

Questi comportamenti compulsivi hanno buone probabilità di divenire abitudini. Per il principio del “rinforzo negativo”, infatti, le compulsioni si rinsaldano nel tempo proprio perché hanno il potere di lenire le preoccupazioni. In questo modo, però, finiscono per apparire l’unica soluzione per gestire le preoccupazioni e, in aggiunta, il loro effetto non dura per sempre. Riconsiderando l’esempio della madre apprensiva, prima o poi le compariranno altri pensieri intrusivi quali: “Ho sterilizzato davvero tutto quello dovevo?”; “L’ho fatto nel modo corretto?”; “Come faccio a essere certa di aver debellato proprio tutti i germi?”. La donna, di conseguenza, sentirà il bisogno di lavare e sterilizzare gli oggetti in modo sempre più accurato. Sotto questa luce, le compulsioni sono simili a una droga; per mantenere il loro effetto calmante devono essere messe in atto sempre più di frequente o in modo sempre più prolungato. E il motivo è semplice: non esiste una compulsione in grado di eliminare senza ombra di dubbio la possibilità della presenza di germi. Di conseguenza, la preoccupazione che il figlio si possa ammalare tornerà comunque e, intanto, la donna sarà diventata “schiava” delle proprie compulsioni ormai inefficaci.

L’esempio fin qui utilizzato serve per descrivere il meccanismo attraverso cui s’innesca e si sviluppa il Disturbo Ossessivo Compulsivo relativo alla contaminazione. Lo stesso principio vale, tuttavia, per gli altri tipi di DOC i quali, tutti, hanno alla base una preoccupazione relativa a qualcosa di doloroso e inaccettabile. Le convinzioni metacognitive relative ai pensieri fanno sì che l’individuo giudichi le proprie preoccupazioni realistiche e di conseguenza pericolose. Le emozioni conseguenti sono tenute a bada con le compulsioni, le quali hanno un effetto ansiolitico momentaneo ma conseguenze deleterie sul lungo periodo.

Proprio per via del ruolo centrale delle metacognizioni, un trattamento efficace del DOC dovrebbe concentrarsi non sulle preoccupazioni del paziente, ma sulle sue convinzioni metacognitive. Infatti, la differenza fra chi soffre e chi non soffre di DOC, al contrario di quanto si possa credere, non è la presenza o l’assenza di pensieri intrusivi, che sono comuni, e nemmeno il contenuto delle preoccupazioni. Chi non ha mai avuto pensieri strani o imbarazzanti? La differenza fra chi vive immerso nelle preoccupazione e chi, invece, riesce a gestirle e a non restarne sopraffatto sta nel rapporto con i propri pensieri. Chi soffre di DOC ritiene i pensieri veri a prescindere dal loro contenuto, ci si perde dentro e attribuisce loro più potere di quanto in realtà abbiano; confonde il pensiero di un gesto con la motivazione a metterlo in atto e, quindi, si sente colpevole, sbagliato o in pericolo per il solo fatto di averlo avuto.

L’obiettivo terapeutico della messa in discussione delle convinzioni metacognitive si persegue attraverso i cosiddetti esperimenti metacognitivi, grazie ai quali è possibile recuperare un buon distacco dai propri pensieri e tornare a vederli, appunto, per quello che sono, semplici pensieri. Durante il trattamento si lavora con il paziente per far sì che emerga la consapevolezza che non è tanto l’evento temuto a produrgli emozioni negative, quanto attribuire un peso eccessivo al timore che esso possa accadere.

Oltre ciò, si lavora sul ripristino della capacità di non centrare l’attenzione sulle ossessioni perché è proprio l’attenzione sostenuta a farle aumentare di numero e d’intensità. Fondamentale è migliorare la padronanza sulla propria attenzione perché, solo così, è possibile spostarla volontariamente dai pensieri ossessivi agli stimoli neutri. Questo obiettivo si raggiunge con l’applicazione del Training Attentivo di Wells.

Le tecniche d’esposizione. Come affrontare le proprie paure e il senso di vulnerabilità

Come già visto in precedenza, nel Disturbo Ossessivo Compulsivo le compulsioni sono attuate allo scopo di contenere le emozioni negative dovute alle ossessioni. Tali emozioni sono quasi sempre il senso di colpa, d’inadeguatezza, di pericolo per la propria o altrui incolumità psicofisica. Alla base di tutti questi sentimenti, tuttavia, c’è sempre il senso di vulnerabilità. Con ciò si intende la percezione di non essere abbastanza forti, sicuri o protetti per affrontare i pericoli o evitarli ed è, questo, il sentimento da cui scaturiscono l’ansia, il bisogno di controllo e la sensazione di non averne mai abbastanza. Proprio sul senso di vulnerabilità si innestano le ossessioni che, bizzarre, imbarazzanti e involontarie per natura, finiscono per rinforzarlo.

Restare in contatto con tali sensazioni senza attuare le compulsioni non è facile, proprio per via della loro intensità. Tuttavia, l’obiettivo principale del trattamento del DOC è proprio questo, perché si è visto che l’evitamento del senso di vulnerabilità impedisce di abituarvisi e di ridimensionarne la portata.

L’esposizione al senso di vulnerabilità passa, per forza di cose, dall’astensione dall’attuare le azioni compulsive. A questo scopo si utilizzano due tecniche, l’Esposizione con Concessione della Risposta e l’Esposizione con Prevenzione della Risposta.

La tecnica dell’Esposizione con Concessione della Risposta prevede che il paziente sia libero di attuare le compulsioni ma, nel momento in cui lo fa, si sforzi di tenere viva anche l’ossessione. Se ben condotto, questo metodo modifica le sue convinzioni in merito all’utilità delle compulsioni e gli dà modo di accorgersi che la conseguenze temute non si verificano, che egli compia o non compia la compulsione.

L’Esposizione con Prevenzione della Risposta, invece, prevede l’esposizione all’ossessione senza la messa in atto della compulsione. Questa tecnica, a differenza della precedente, va praticata in modo graduale perché pone il paziente dinnanzi alle proprie paure senza la sua “arma” di difesa, cioè la compulsione. Occorre, innanzitutto, conoscere in dettaglio tutti i suoi rituali overt e covert e, di seguito, impostare un piano d’esposizione basato sui parametri di latenza, di durata o di frequenza. Si può, per esempio, decidere con il paziente di confinare i rituali a una durata determinata e solo a un certo momento della giornata, oppure si può aumentare poco per volta la latenza: se il paziente attua un prolungato lavaggio delle mani per neutralizzare l’ossessione di essere stato contaminato, per esempio, l’esercizio può essere impostato in modo che egli faccia trascorrere sempre più tempo fra il momento in cui insorge l’ossessione e quello in cui mette in atto il lavaggio. In aggiunta, si può concordare una durata sempre minore di ciascun lavaggio. Così facendo, il senso d’urgenza nell’attuare il rituale cala fino a scomparire.

Entrambe le tecniche, anche se per vie opposte, mirano allo stesso risultato: indebolire la necessità e il senso d’utilità del compiere le compulsioni. Se messi in pratica nel modo corretto, questi esercizi danno modo al paziente di capire di non essere così vulnerabile come pensava e, quindi, di non dover esercitare per forza un controllo continuo sull’ambiente. Ciò, in una sorta di circolo virtuoso, ha un potente effetto di riduzione della durata e del numero delle ossessioni stesse.

Oltre a consentire la corretta stesura del piano d’esposizione, conoscere in profondità il comportamento del paziente è importante perché, spesso, chi soffre di DOC mette in atto evitamenti allo scopo di non far innescare il pensiero ossessivo. Un paziente che ha l’ossessione di fare del male ai propri cari, per esempio, potrebbe nascondere i coltelli da cucina in modo che non siano in vista, un paziente che ha il timore di contaminarsi potrebbe non utilizzare i bagni del proprio luogo di lavoro. Sebbene queste azioni, sul breve termine, riescano a inibire il pensiero ossessivo, impediscono anche di sviluppare una nuova elaborazione metacognitiva e, così, mantengono intatte le paure sottostanti. Inoltre, cosa di non poco conto, limitano in modo consistente la libertà. Eliminare con gradualità anche questi evitamenti dovrebbe, perciò, essere una priorità.

© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.

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