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Efficacia, indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali: tutto quello che devi sapere sugli psicofarmaci

Sono più di 3 milioni e mezzo gli italiani che, ogni anno, assumono antidepressivi, ai quali si devono sommare i tanti in trattamento per disturbi d’ansia. Oltrepassando pregiudizi e luoghi comuni, in questa pagina discuteremo effetti e controindicazioni dei sempre più diffusi psicofarmaci.

efficacia psicofarmaci

Si dice “psicofarmaci” senza fare troppe distinzioni, ma questa vasta categoria di medicinali ne comprende molti e di diverso tipo, e generalizzare non aiuta a comprenderne l’effettiva efficacia, né a fare luce su cosa ci si debba attendere dal loro utilizzo.

Per questa ragione, prima di tutto, è utile suddividerli in antidepressivi, benzodiazepine e antipsicotici.

Gli antidepressivi sono impiegati nel trattamento dei disturbi dell’umore, per esempio la depressione e la distimia ma, ormai da diversi anni, anche nella cura di alcuni disturbi d’ansia e ossessivi. Degli antidepressivi fanno parte, fra gli altri, gli inibitori della monoamino ossidasi (MAOIs), i triciclici (TCAs), gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) e della serotonina-noradrenalina (SNRIs). Al momento, i più diffusi sono il Citalopram, la Fluoxetina, la Paroxetina e la Sertralina, appartenenti alla categoria SSRIs.

Le benzodiazepine, invece, includono gli ansiolitici, i sedativi e gli ipnotici, esplicano i loro effetti sul neurotrasmettitore acido gamma-aminobutirrico (GABA) e sono utilizzati, in particolare, nei trattamenti brevi dell’ansia, dell’insonnia e dell’astinenza da alcol. I più noti sono il Valium e il Prazene, che hanno una durata d’azione superiore alle 48 ore; il Lexotan e il Roipnol, che agiscono per 24-48 ore; lo Xanax e il Tavor, che hanno un’emivita breve, inferiore alle 24 ore. Di sicuro li avrai sentiti nominare.

Gli antipsicotici, o neurolettici, infine, agiscono sul neurotrasmettitore dopamina inibendone l’attività e, come puoi intuire dal nome, sono utilizzati soprattutto per trattare i disturbi psicotici. Impiegati nella schizofrenia, limitano le allucinazioni e i deliri. Nel disturbo bipolare, invece, aiutano a contenere l’impulsività e l’agitazione tipiche della fase maniacale. Fra i più diffusi vi sono l’Aloperidolo, la Clorpromazina e l’Olanzapina.

Gli psicofarmaci contro l’ansia, la depressione e i disturbi ossessivi: quando sono utili e quando, invece, è meglio evitarli

Secondo l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sono circa 3 milioni e 600 mila gli italiani che, ogni anno, ricevono almeno una prescrizione di antidepressivi: il 6% della popolazione totale. A questi si devono sommare i tanti in cura con benzodiazepine, dei quali 4 milioni assumono sonniferi.

La crescita del consumo di psicofarmaci ha cause molteplici. In parte è dovuta all’aumentata sensibilità, sia degli operatori, sia dell’utenza, al tema della “salute”, intesa ormai non solo in senso fisico ma anche psichico; non più come assenza di malattia, ma come benessere.

I dati diffusi dall’AIFA, però, suscitano preoccupazioni: in effetti, non di rado accade che gli psicofarmaci siano prescritti in modo frettoloso o con eccessiva leggerezza.

Gli psicofarmaci nel trattamento dei disturbi d’ansia

La esprimi in determinate circostanze e non in altre, ma neppure tu ne sei immune: l’ansia è un’emozione universale. Serve a segnalarti il pericolo. Ecco perché, da ragazzo, ti agitavi prima delle interrogazioni: il rischio era di essere bocciato, di fare una figuraccia di fronte al professore e ai compagni, di dover comunicare la brutta notizia ai genitori…

Tutti temiamo di fallire, essere abbandonati, giudicati. Possiamo sentire ansia, quindi, anche di fronte a circostanze non oggettivamente pericolose, ma che ci appaiono tali. Questo perché tendiamo a formarci convinzioni irrealistiche, basate sull’ingigantimento di probabilità e sulla catastrofizzazione di conseguenze. Così, un esperto di sport estremi può sentirsi tranquillo in bilico sul ciglio di un burrone ma sprofondare nel panico, seduto su una comoda poltroncina, aspettando di sostenere un colloquio di lavoro.

L’ansia non è una malattia. Sono certe tue opinioni che dai per vere, l’atteggiamento che adotti pensando a te stesso, a ciò che ti circonda e al futuro, a determinare quanta ne senti. Nella “cura” dell’ansia le benzodiazepine, almeno in parte, possono fare in modo che tu riesca a stringere le posate del ristorante senza tremare; diminuirti lo sgradevole sudore sotto le ascelle e sulla fronte che tanto ti imbarazza; forse, aiutarti a sopportare le situazioni dalle quali, altrimenti, fuggiresti a gambe levate. Calmandoti, possono renderti più padrone di te stesso, ma non eliminano l’idea che commettere errori ed essere giudicato sia intollerabile. Non leniscono il tuo bisogno di controllo, né fanno sì che tu smetta di considerare il futuro una minaccia e inizi a vivere il presente. Insomma, non agiscono sulle vere cause dell’ansia. Di conseguenza, il loro effetto è limitato e, spesso, richiede un’assunzione regolare.

Inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, sul lungo periodo le benzodiazepine possono aggravare il problema. Neutralizzando i sintomi dell’ansia ti impediscono di impratichirti a gestirla in prima persona. Con il passare del tempo, disabituato a farne esperienza la percepisci sempre meno dominabile e, così, ne esce rafforzata la convinzione che assumere il farmaco sia l’unica strada percorribile.

Gli psicofarmaci nel trattamento della depressione

La tristezza è una risposta emotiva agli eventi avversi, è il sentimento che provi dopo un insuccesso professionale, mentre affronti una delusione amorosa, perdendo qualcuno al quale eri legato. La depressione è ben altro: è una sindrome caratterizzata dal senso di vuoto, dalla protratta difficoltà a provare emozioni positive, dalla svalutazione di sé e dai sensi di colpa, dall’irritabilità e dall’incapacità di sopportare gli imprevisti, perfino i più piccoli. Quando sei depresso ti colpisce l’insonnia o, al contrario, una letargia che non ti sai spiegare. Ti sembra di non disporre nemmeno delle energie sufficienti a svolgere le faccende quotidiane, il cibo perde sapore e ciò che prima ti dava piacere, smette di farlo. Anche la memoria e l’attenzione ne risentono: fai fatica a ricordare scadenze e impegni, ti distrai di continuo.

A livello neurologico, la depressione è legata all’alterazione funzionale di neurotrasmettitori quali la serotonina e la dopamina. A livello psicologico, nei depressi si osserva una profonda sfiducia verso gli altri, il futuro e se stessi. Ecco il dilemma: è il cronico atteggiamento pessimista a indurre l’alterazione della chimica del cervello, o è quest’ultima a causare certi pensieri?

La continua ruminazione sui propri fallimenti, l’immobilità e il senso di alienazione, tipici dei pazienti depressi, prima o poi devono essere affrontati in qualsiasi trattamento degno di questo nome. Tuttavia, l’efficacia della psicoterapia è potenziata se affiancata a una farmacoterapia, consigliabile in particolare nelle forme gravi di depressione e indispensabile qualora il paziente non riesca a seguire con costanza e coinvolgimento la psicoterapia o non sia in grado di applicare, nel quotidiano, quanto discusso in seduta.

Gli psicofarmaci nel trattamento dei disturbi ossessivi

Pensare implica una serie di processi cognitivi ed emotivi grazie ai quali ti formi una personale rappresentazione di ciò che ti circonda: con il pensiero attribuisci significato agli stimoli che, per mezzo dei cinque sensi, cogli dall’ambiente. Dal pensiero nascono i giudizi sul passato e le aspettative sul futuro.

L’incertezza e il dubbio sono parte inevitabile della condizione umana. Nei disturbi ossessivi, però, questo naturale senso di vulnerabilità diventa patologico.

Il più noto fra i disturbi ossessivi è il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). “Avrò chiuso i rubinetti del gas prima di uscire?”; “L’oggetto che ho appena toccato era contaminato?”; “Se ho pensieri aggressivi, potrei diventare violento?” sono solo alcuni fra i mille possibili tormentosi dubbi di chi soffre di DOC.

L’ipocondria, invece, è la “malattia” di chi teme le malattie. Se sei ipocondriaco, forse, il tuo peggior incubo è scoprire di avere un cancro o una cardiopatia; subire un ictus e restare invalido; essere colpito da una sindrome neurologica degenerativa, come l’Alzheimer o la SLA. Questo, nonostante i numerosi accertamenti e le premurose rassicurazioni degli specialisti.

Nel Dismorfismo Corporeo, infine, le ossessioni si concentrano sull’aspetto fisico. Le donne dismorfofobiche si fissano in particolare sui tratti del viso, sulla forma di cosce, glutei, seno, addome e fianchi. Gli uomini sull’altezza, sulla forma e la grandezza dei genitali, sui peli, sui capelli e sulla muscolatura. Distorte percezioni inducono queste persone a considerare difettoso il proprio corpo e a pensarci di continuo.

Il trattamento farmacologico di questi disturbi si basa sull’impiego di farmaci antidepressivi. In particolare, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) hanno dimostrato una buona efficacia nel lenire il rimuginio ossessivo. Laddove la rigidità cognitiva del paziente sia tale da impedire, a monte, il lavoro psicoterapeutico, l’utilizzo di tali farmaci è consigliato e, a volte, imprescindibile.

Le diffuse convinzioni negative, fondate e infondate, sugli psicofarmaci

Quello dei disturbi psichiatrici, o mentali, non è un campo d’indagine semplice. Nemmeno nei confronti di una sindrome dai sintomi tanto evidenti, come è la depressione, gli specialisti trovano univoco accordo.

Se sei aggiornato sui risultati della ricerca scientifica in materia di psicofarmaci avrai notato quanto essi siano, spesso, contraddittori. Ed è inevitabile: ciò che riguarda la mente non può essere misurato, almeno non nel modo quantitativo che il metodo scientifico richiede. Come giudicare l’efficacia oggettiva di uno psicofarmaco? Come verificare il quadro clinico del paziente, a trattamento concluso, se non basandosi sulle sue autodescrizioni, che saranno per forza viziate da giudizi personali?

L’opinabilità delle conclusioni sull’efficacia e sugli effetti, positivi o negativi, degli psicofarmaci ha contribuito alla diffusione di numerosi pregiudizi. Alcuni fondati e dimostrabili, altri frutto di luoghi comuni duri a morire. Ecco i principali.

“Assumere psicofarmaci mi cambierà”. Questo stereotipo si basa sull’assunto secondo il quale i farmaci, sostanze chimiche che agiscono sul cervello, nell’alleviare l’ansia, la depressione o le ossessioni, finiscano per trasformare l’individuo. Il timore è comprensibile; nessuno, per quanto stia soffrendo, vorrebbe perdere se stesso. Ma è infondato. Lo psicofarmaco, in una terapia prescritta e seguita dallo specialista, può alleggerirti dal rimuginio ossessivo, placare l’ansia che ti annebbia in talune situazioni, ristabilire un umore “normale”. Ma non farti diventare qualcun altro, né indurti pensieri estranei alla tua personalità.

“Gli psicofarmaci causano gravi effetti collaterali”. Un luogo comune diffuso e in parte vero, ma frutto di una generalizzazione impropria. In effetti, nell’assunzione di benzodiazepine si possono osservare effetti indesiderati come la sonnolenza, le vertigini, il calo della libido. Sono frequenti, poi, fenomeni d’assuefazione. Nel corso del trattamento questi farmaci perdono le loro proprietà sedative e miorilassanti, a meno di non aumentarne la dose. Infine può verificarsi dipendenza e, alla sospensione, astinenza, che può manifestarsi con insonnia, ansia, attacchi di panico, cardiopalmo, tremori, agitazione e spasmi muscolari. Ma questi effetti collaterali non si riscontrano, se non in minima parte, in altri psicofarmaci, per esempio gli antidepressivi di nuova generazione.

“Se inizio a prendere psicofarmaci non potrò mai smettere”. Hai vinto le resistenze e iniziato ad assumere psicofarmaci, hai notato significativi effetti benefici. Come trovare, infine, il coraggio di interrompere, con il rischio di tornare a stare male? Nella maggior parte dei casi, i trattamenti sono pensati per un periodo limitato di tempo dopo il quale, sotto controllo medico, si avvia una graduale sospensione. Una corretta terapia a base di benzodiazepine non deve mai protrarsi per più di qualche settimana; quella con antidepressivi raramente supera i due anni e, spesso nemmeno i 12 mesi. Essere consapevole che l’aiuto del farmaco non sarà eterno può aiutarti a evitare la “dipendenza psicologica”.

“Se mi curo con gli psicofarmaci non avrò merito degli eventuali progressi”. Forse pensi che il farmaco, agendo sulla chimica del cervello, possa compiere magie a prescindere dal tuo comportamento. Non è così. Immagina di esserti sottoposto, con successo, a un’operazione chirurgica alle gambe. In convalescenza fai fatica a camminare, ti senti fragile e, allora, ti servi di un paio di stampelle per fare riabilitazione. Che, naturalmente, non svolgono il lavoro al tuo posto e che saranno inutili se passerai le giornate sul divano. Invece, ti daranno una mano se ti attiverai. E, se alla fine tornerai a camminare, potrai con buona ragione attribuirtene il merito. In fondo puoi considerare gli psicofarmaci alla stregua di stampelle: è difficile che producano effetti sostanziali e duraturi se, nel frattempo, non fai qualcosa per migliorare le condizioni che ti causano sofferenza o per cambiare modo di pensare. Il farmaco può aiutarti, ma non ti solleva dalla necessità di agire.

© Gabriele Calderone, riproduzione riservata.

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